
La ricerca della felicità: quando devi correre per inseguire quell’attimo fuggente
Nella prima bozza della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, Thomas Jefferson scrisse delle Verità che riteneva inappellabili. Due su tutte: che tutti gli uomini sono creati uguali, e che Dio ci concede tra i diritti inalienabili la vita, la libertà e the pursuit of Happiness, La Ricerca della Felicità.
Nel 2006, Gabriele Muccino decise insieme a Will Smith di raccontare il significato profondo di questa frase con un film che conquistò il mondo intero, e che si basa sulla vera storia di un uomo che durante i primi anni ’80 visse una condizione di estrema povertà, prima di diventare milionario con la professione di broker. Si chiamava Chris Gardner, e nell’ultima scena del film incrocia per un momento lo sguardo di Will Smith mentre passeggia per strada insieme a suo figlio.
La Ricerca della Felicità è una pellicola struggente e traboccante d’amore, complice anche la verità immortalata nei gesti e nelle carezze di Will Smith a suo figlio. Il suo vero figlio, Jaden Smith, che anni dopo rivedremo nel remake di Karate Kid.
Soprattutto, il film è un crudo affresco delle diseguaglianze sociali nella società capitalista occidentale per eccellenza, l’America, dove quel “diritto inalienabile alla felicità” non è altro che una vana illusione. Fin dalla prima scena, Muccino gioca con i contrasti tra il benessere e la miseria: senzatetto riversi per strada schivati dai passi di benestanti uomini d’affari, ville lussuose e topaie costruite nel degrado, cinque dollari di mancia per un cameriere o cinque dollari per tirare avanti tutta la settimana.
E poi c’è Chris, che per una serie di circostanze si trova proprio in quel preciso punto a fior d’acqua, dove una sola bracciata sbagliata può farti annegare e un’altra può tenerti ancora un po’ a galla. E’ quello che succede quando la vita si accanisce con violenza su di te, sferrando i suoi colpi uno dopo l’altro, lasciandoti davanti ad una terrificante rivelazione: tu sei solo.
Quella promessa di benessere e di felicità con cui sei cresciuto, quell’ideale di speranza verso un futuro migliore, può scomparire di colpo di fronte alla paura della miseria più cupa. Ed è solo quando tocchi il fondo che scopri le contraddizioni di uno Stato che si definisce Welfare, ma che ospita tra le sue strade pulite e le sue villette a schiera un popolo di invisibili: la povertà è più vicina di quanto pensi, e un giorno potrebbe toccare a te.
In una vita in bilico tra la paura e la disperazione, dove si colloca la “ricerca” della felicità? Perché di una ricerca, si tratta. Se sei benestante. Se stai affogando, si tratta di rincorrerla fino a rimanere senza respiro, la felicità. E così, per la durata dell’intero film, Chris corre: corre per prendere quell’autobus che non può perdere, corre per avere un letto dove far dormire suo figlio, corre per inseguire la speranza di un attimo fuggente: quell’attimo in cui smetti di correre, e in te si riaccende la luce di una promessa di felicità. Quello. Quel singolo attimo, è la felicità.
Durante la sua corsa, Chris non dimentica quella promessa di felicità, e soprattutto ciò che rende un uomo e un padre degno di essere chiamato tale: l’amore per suo figlio, la dignità, la speranza. Come fu per Benigni ne La Vita è Bella, anche per Chris il lascito per suo figlio è quello di tenere stretto con sé l’ideale di felicità, trasformando persino il bagno di una stazione in una grotta segreta.
Quella di Chris è la storia di un uomo che ce l’ha fatta, a inseguire la felicità. Forse perché non l’ha mai del tutto persa di vista, anche nei momenti in cui chiunque avrebbe gettato la spugna. Ma attraverso la sua storia, Gabriele Muccino ci mostra un mondo di corridori meno veloci di Chris, di uomini e donne che hanno smesso di cercarla, la felicità, o che per loro sfortuna non ce l’hanno fatta a salire in tempo su quell’autobus.
La misera esistenza degli ultimi, dimenticati dal mondo a favore di un ideale di felicità che in questa società che definiamo “libera ed egualitaria” non è per tutti. Forse, Thomas Jefferson questo lo aveva capito.

