full metal jacket
Drammatici,  Recensioni

Full Metal Jacket: l’annientamento dell’individualità per vincere la guerra

Lo sai qual è la ricetta per fottere le reclute…? Si rimbecilliscono con le esercitazioni e le marcette che stroncano. E marciando cantano (..che a cantare non pensano, e a non pensare non s’accorgono di venir fottuti). Infine si cancella la loro personalità, la loro individualità.
Basterebbero forse queste parole, citate solo in minima parte e tratte da Insciallah, di Oriana Fallaci, per descrivere questa astronave aliena rappresentata dalla prima mezz’ora di Full Metal Jacket.

Un’immersione simile nel meccanismo di lavaggio del cervello di esseri umani resettati per diventare killers, e predisposti anche a poter crepare in guerra infilati da “pallottole incamiciate” sette e sessantadue e blindatissime, non si era e non si è mai visto; non a questi livelli, almeno.

L’annientamento comincia dai capelli, rasati completamente e accompagnati dalla musica extra diegetica di un’ apparentemente innocua ballata rock anni sessanta, per proseguire nei cervelli ammaestrati in modo brutale dall’implacabile Sergente Hartman e dalla sua verbalità bestiale divenuta leggendaria.

Una prima parte memorabile che da sola basterebbe a essere film, questa intrusione nel campo di addestramento atto a costruire da zero delle macchine da guerra chiamate Marines. Una sorta di cura Lodovico di altra Kubrickiana memoria, insomma. E la cura funziona a tal punto che il povero “Palla di lardo” , tale è il suo nome nel meccanismo perverso della macchina dell’esercito, ne diviene egli stesso vittima e carnefice.

Palla di lardo, che alla fine, ormai fuori di testa e prima di spararsi un colpo in bocca accoppa a bruciapelo il Sergente incaricato di cambiare i connotati del suo e di tutti i cervelli lì presenti, ricorda L’ Hal 9000 che in Odissea nello Spazio si ritorce contro coloro che lo hanno creato e li uccide.

Io ci sono già nella merda. Fino al collo!

dice la scheggia impazzita al soldato Joker, forse suo unico “amico”. La brutalità dell’annientamento psicologico e della trasformazione di ragazzi in macchine dal cuore nero programmate solo per uccidere, risulta talmente devastante al punto da diventare una Mors tua Vita mea, per cui le cazzate di una imbranata recluta vengono fatte ricadere su tutto il plotone fino a quando il plotone si ribella; e, in una scena notturna agghiacciante avvolta in una luce fredda come una lama, punisce la malcapitata recluta imbranata con saponette avvolte in asciugamani per colpire e far male, come le clave usate dalle scimmie antropomorfe in Odissea nello Spazio. Kubrick, insomma! Per il quale certi meccanismi “umani” rimangono tali a distanza di ambienti, di epoche e perfino di Ere diverse.

La seconda parte del film ci porta in guerra, quella vera, con carrelli a seguire dei e tra i Marines che potrebbero essere rivisti all’infinito tanto sono affascinanti. Seconda parte senza apparenti collegamenti con la prima, perché si sa: Kubrick voleva “far esplodere lo schema narrativo del film; qualcosa che faccia tremare la terra”, come dichiarò. E lo fece. Anche se, tuttavia, con sarcastica e geniale intenzione, riuscì a farci comprendere come anche un micidiale addestramento possa venir meno quando Marines ben addestrati possano venir messi sotto scacco da un cecchino invisibile che in una città devastata e distrutta li falcia come fantocci.

Full Metal Jacket (1987)
Directed by Stanley Kubrick
Shown: Matthew Modine (foreground, as Private Joker), Adam Baldwin (background, as Animal Mother)

E sarà nella luce e nella fotografia memorabili di quegli ultimi venti minuti, accompagnati da suoni e cigolii sinistri e insostituibili, che si consumerà la vendetta dei Marines contro quel cecchino: una ragazza vietcong, che dopo esser stata colpita chiederà soltanto di essere finita a bruciapelo. E sarà proprio il soldato Joker a farlo, lo stesso che imita John Wayne e che porta sulla giacca il simbolo Junghiano della dualità dell’essere umano e sull’elmetto la scritta “Born to Kill”.

E alla fine, non si sa se sia più indimenticabile quella marcia solitaria dei Marines che cantano l’inno di Topolino tra le fiamme nella notte, o il brano finale delle “Pietre Rotolanti” sui titoli di coda:

Guardo dentro di me e vedo il mio cuore nero.

Così sia. Immenso Kubrick. Difficile filmare la guerra dopo tutto questo.

Recensione a cura di Enrico Rolli

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