Pinocchio e la Fata Turchina nel film di Garrone
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Pinocchio: Garrone ci trasporta nella fiaba crepuscolare di Collodi

Fare una trasposizione cinematografica del libro più letto al mondo (così si diceva negli Anni Settanta: più letto e famoso della stessa Bibbia) è impresa ardua e delicata per qualunque regista. Roberto Benigni racconta che Fellini, già ai tempi della lavorazione de La voce della luna (1989), gli consigliava di fare un suo Pinocchio avvertendo quasi fosse un presagio che non avrebbe mai portato a compimento una sua opera sul famoso burattino di Collodi. Ora è la volta di Matteo Garrone, regista intelligente e raffinato.

Avvezzo a complesse trame psicopatologiche e a personaggi estremi, ci si sarebbe aspettati una lettura quanto meno rischiosa. E invece no. Il Pinocchio di Matteo Garrone porta sullo schermo tutto l’immaginario manualistico e pedagogico, caro alla generazione degli ultra cinquantenni. Lo fa per altro in modo splendido, come splendido è tutto l’episodio dell’incontro tra Pinocchio e la Fata Turchina bambina.

Il bestiario collodiano, metafora irriverente di una società bacchettona ma saggia, prudente e rispettosa di leggi e regole, trova qui come in tutti gli altri personaggi del film, una meravigliosa rappresentazione.

Costumi e trucco, movimenti scenici e attoriali, accompagnati da un occhio filmico mai invadente, costituiscono da soli la giusta motivazione alla visione del film. Straordinariamente e visivamente emozionante sono anche le brevi sequenze della trasformazione di Lucignolo e Pinocchio in poveri ciuchini, destinati a un grigio destino. 

Benigni nel ruolo di Geppetto in Pinocchio

Bravo, convincente, mai melodrammatico il Geppetto di Benigni. Bravo, e capace di dar vita, per la prima volta nella sua carriera, a un carattere comico-drammatico anche Massimo Ceccherini, che appare pure in veste di co-sceneggiatore.

Il film è raccomandabile più a un pubblico adulto. La lettura filmica fatta dal regista pare rivolgersi volutamente all’etica dell’essere genitori e alla perdita di autorevolezza educativa insinuando, indirettamente, anche la soluzione al problema. Da un lato la miseria e l’ignoranza, dall’altro il caos in cui tergiversa uno Stato pasticcione, sconclusionato ma pericoloso (vedi il tragicomico episodio del giudice-scimmia).

Le immagini rendono un dovuto omaggio al realismo magico di Comencini e la scelta dei luoghi scenici (Toscana, Lazio e Puglia) è davvero riuscita ed efficace, ma l’uso costante delle ombre alla Garrone (sia consentito questo appunto) ovvero l’inserimento costante e ripetuto di un processo di oscuramento là dove prima c’era piena luce, l’inserimento di una visione crepuscolare che provochi straniamento o mortificazione della coscienza non consente alla rappresentazione fantasiosa di far esplodere l’emozione che così resta umilmente in ascolto.

Recensione a cura di Alessandro Bigarelli